Unica esponente femminile del gruppo dell’Arte Povera, Marisa Merz esordisce negli anni Sessanta con i lavori titolati Living Sculpture, installazioni scultoree di grandi dimensioni in lamina di alluminio sospese nello spazio e soggette alle mutazioni del caso e della materia stessa che ben si inserivano nella poetica del movimento legata all’arte come processo, visualizzazione e materializzazione dell’energia. Successivamente si dedica ad una ricerca più lirica ed intima con la creazione di piccole “teste” d’argilla cruda, forme in cera, teli tessuti con fili di rame o nylon lavorati a maglia, introducendo nel linguaggio della scultura contemporanea materiali e tecniche propri dell’artigianalità, spesso associati alla sfera domestica e femminile, come appunto il cucito. “Animo alla continua ricerca del dare forma al pensiero”, dagli anni Ottanta Marisa Merz affianca alla scultura la pratica del disegno e della pittura il cui soggetto costante, così come nelle teste d’argilla, sono volti evanescenti che emergono dalla stratificazione di linee e segni, presenze incorporee ed indeterminate alle quali il critico Tommaso Trini associa la definizione di “prefigure”. In una più recente rielaborazione di questo tema, le figure appaiono tra ampie pennellate di colori sgargianti in varianti di oro, blu e rosso, simili a icone bizantine, angelicate e al contempo ermetiche.
Marisa Merz (Torino, 1926 – 2019). Nel corso della sua carriera la sua opera è stata esposta in numerose istituzioni di pregio tra cui: Philadelphia Museum of Art, Philadelphia, USA (2019); Serralves Museum, Porto, Portogallo, (2018); Museum der Moderne Salzburg, Austria, (2018); Metropolitan Breuer di New York, USA (2017); The Hammer Museum di Los Angeles, USA, (2017); Serpentine Gallery, Londra, UK (2013); Fondazione Querini Stampalia, Venezia, (2011); Kunstmuseum Winterthur, Svizzera (2003 e 1995). Nel 1982 ha partecipato a Documenta 7 a Kassel in Germania. È stata insignita nel 2001 del premio speciale Venice Biennale, mentre nel 2013 ha ricevuto il Leone d’Oro alla 55° Biennale di Venezia.
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Foto © Dietmar Schneider